La politica e l’economia ai tempi del Coronavirus: castelli di carta franati alla prima folata

Qualcuno dovrebbe scrivere un racconto intitolato “la politica e l’economia ai tempi del Coronavirus”. Ne verrebbe fuori una storia dove la politica fa la figura del cane pazzo, che si addenta la coda con rabbia, senza accorgersi che la coda è la sua. E riguardo all’economia mai più grande lezione fu data in questi tempi oscuri.
Andiamo per ordine.
Si ha un bel dire, da parte di medici e politici (non tutti, ci sono quelli che ci scherzano sopra e godono come rospi) che non bisogna avere paura del morbo che arriva dalla Cina. Si ha un bel dire, ma se la paura ha attecchito con una forza così brutale, è perché ha trovato terreno fertile. Ha trovato un campo ben concimato da una classe politica inconcludente, più attenta all’immagine che alla sostanza e che ha lisciato il pelo a un giornalismo becero e sensazionalista.
Non deve dunque destare meraviglia se fioriscono gli imbecilli che auspicano (ho lo screen shot) che il governatore Rossi venga “giustiziato”, oppure gli idioti che si ingrifano perché l’epicentro del contagio è al Nord. Come può la gente normale capirci qualcosa quando un giorno le scuole vanno chiuse, paventando chissà quale tragedie e il giorno dopo, la stessa autorità che le voleva chiudere, dichiara che le scuole devono rimanere aperte?
Cosa volete che ci capisca una persona comune quando la politica se la prende (giustamente) con le fake news che prosperano a livello europeo contro l’Italia e al contempo continua a tollerare milioni di messaggi falsi che viaggiano sui social?
Non so se qualcuno ne ricaverà un ammaestramento, non credo, passata l’ondata tutto tornerà come prima, perché chi nasce tondo non muore quadrato.
Confido però che almeno dalle nostre parti, siano arrivati chiari e forti alcuni segnali. Il primo è che non è pensabile una sanità pubblica che, di fronte a un’emergenza nazionale, parla il dialetto delle regioni, con una confusione di ruoli e burocrazia da fare spavento.
La seconda è che il coronavirus ha fatto giustizia di chi credeva che l’economia, compresa quella locale, potesse fondarsi sul turismo andando in tasca alle fabbriche e alle imprese artigiane. Cantatela oggi questa canzone, cantatela a fronte delle disdette che fioccano dall’estero e alla poca voglia degli italiani di mettersi in viaggio.
In più, questa crisi maledetta, aggravata dal virus, mostra, come sotto una lente d’ingrandimento, la fragilità di politiche amministrative prive di strategia e senza un domani. Servirà la lezione? Anche in questo caso ne dubito, perché è più facile vestire una città di paillettes e lustrini che non prendere, per esempio, una decisione sul futuro delle aree industriali dismesse. Perciò è vietato lamentarsi se, di fronte a scenari apocalittici, la gente reagisce male. La colpa non è della gente, la colpa è di chi ha costruito questo gigantesco castello di carte che, al primo vento, frana su se stesso.