Amarcord amaranto

Quel pomeriggio rimase impresso nella mia mente di bambino soprattutto per il dopo partita e per l’incontro con un personaggio che catturò immediatamente la mia attenzione. Io e mio padre eravamo appena usciti dallo stadio, aveva smesso di piovere, c’era molta gente, ognuno si avviava verso le rispettive auto con la felicità e la soddisfazione stampata in volto per il risultato e l’ottima prestazione. Ad un certo punto vidi un capannello di persone al centro del quale era piazzato un tifoso con addosso un impermeabile usa e getta che in molti si portavano in tasca al posto dell’ombrello, erano di una plastica talmente fina che si rompeva solamente a guardarla. Non impicciavano le mani come gli ombrelli ma alla fine se pioveva tornavi a casa zuppo lo stesso. Venivano chiamati “i preservativi da stadio” ma erano molto meno resistenti degli anticoncezionali. L’uomo stava urlando per farsi capire perché dal timbro della voce si capiva che le corde vocali avevano sofferto le pene dell’inferno nel corso dei novanta minuti. La cosa buffa era che stava commentando la partita nelle sue azioni salienti mimando le occasioni da gol e gli assist, il tutto accompagnato da commenti e battute divertenti. Una specie di moviola umana, decisamente diversa da quella che la domenica sera vedevamo alla Domenica Sportiva a cura di Carlo Sassi. Ci avvicinammo, mio padre rideva come gran parte di quelli che gli stavano intorno. Il tifoso era arrabbiato con Mario Fara che secondo lui aveva giocato male. Un signore lo provocò divertito: “Ma cosa dici? E’ stato uno dei migliori in campo!”. La risposta arrivò secca e decisa: “E’ l’unico che è uscito senza neanche uno schizzo di fango sulla maglietta e sui pantaloncini, non gliele mettono neanche in lavatrice, questa settimana una fatica in meno”. Riprese fiato a tempo di record e passò a commentare la mezza rovesciata del nostro centravanti che secondo lui aveva “padellato” un gol. La spiegazione era presto detta: aveva piegato male le ginocchia, e a supporto di questa sua tesi mimò il gesto atletico del giocatore amaranto. “Babbo ma chi è questo signore?” chiesi tra l’incuriosito e il divertito, “Si chiama Aurelio Mencaroni, è un tifoso malato dell’Arezzo”. Domandai anche perché non l’avevo mai visto in tribuna dove prendevamo posto io e mio padre ad ogni partita casalinga: “Va sempre in maratona, anche quando piove”. In occasione della partita successiva lo cercai subito con lo sguardo appena varcata la soglia del Comunale, in effetti si piazzava a lato della gradinata opposta alla tribuna e si muoveva seguendo le azioni della squadra amaranto scortato da un drappello di fedelissimi che non lo mollavano un attimo per non perdersi i commenti, ma anche perché erano convinti che prima o poi sarebbe caduto a terra bisognoso di un massaggio cardiaco. Ma Aurelio non crollava mai. Mi convinsi che quella parte dello stadio l’avevano ribattezzata Maratona in onore dei chilometri macinati da Mencaroni ad ogni impegno casalingo. Venni a sapere che era un ferroviere in pensione che trascorreva gran parte delle sue giornate all’interno del Circolo Amaranto, in via Pietro da Cortona, dove leggeva i tre quotidiani sportivi nazionali e le cronache sportive dei due giornali locali. Non voleva farsi trovare impreparato. A metà degli anni 80 iniziai a scrivere di calcio, frequentavo l’Università e contemporaneamente avevo iniziato una piccola collaborazione con Teletruria. La domenica ero sempre impegnato nelle interviste del post partita, ero felice perché stavo conciliando la passione per la mia squadra con quella per il giornalismo sportivo. Un giorno venni convocato dal direttore di Teletruria Gianfranco Duranti, voleva fare una trasmissione sportiva fuori dai canoni classici, che avesse un taglio ironico, mi chiese se me la sentivo di progettarla e di condurla. Mi si accese la lampadina, gli proposi di portare in trasmissione Aurelio Mencaroni. C’era soltanto da convincerlo a sposare il progetto e ad essere disinvolto davanti alla telecamera, ovvero il Mencaroni del piazzale antistadio e del Circolo Amaranto. La prima puntata fu devastante, Aurelio si presentò con un cappello e lo feci andare a ruota libera, la trasmissione diventò con il passare delle settimane un appuntamento fisso per tutti gli sportivi dell’epoca. Nel corso di una puntata memorabile gli chiesi se voleva più bene all’Arezzo oppure a sua moglie: “ma che domande mi fai? E’ anche un po’ offensiva la domanda che mi poni, è ovvio e scontato che prima di tutto viene l’Arezzo, poi la moglie! E lo sai perché? Le consorti passano mentre l’Arezzo resta…dalla moglie ti puoi separare, dall’Arezzo no”. La settimana dopo mi disse che quella che lui abitualmente definiva gentile consorte al suo ritorno a casa era stata tutto meno che gentile, si era leggermente sdegnata, ne era seguita una lunga guerra fredda fatta di musi lunghi e silenzi imbarazzanti. “Le donne a volte non le capisco, basta un nulla e vanno su tutte le furie…”, chiuse con questo commento l’amara vicenda. Per fortuna dopo un mesetto, forse anche due, fecero pace. In trasmissione uno dei suoi tormentoni preferiti era quello che voleva vedere almeno una volta l’Arezzo in serie A: “Poi posso anche morire felice e sereno, non avrei null’altro da chiedere alla vita”. Non fece in tempo a rivedere l’Arezzo nemmeno in serie D, se ne andò dopo una fatale malattia nella stagione della vittoria del campionato con Serse Cosmi in panchina. Andai a trovarlo a casa sapendo che era ancora lucido e cosciente, mi accolse con un sorriso e mi chiese di parlare soltanto di calcio, era perfettamente consapevole che da quel letto non si sarebbe rialzato, non voleva pensare ad altro che alla squadra del suo cuore, era un modo tutto suo di allontanare la paura e l’angoscia. Quando dopo un’oretta lo salutai mi resi conto che non sarei riuscito a trattenere la commozione, mi salvò lui in calcio d’angolo con una battuta delle sue: “Non sono riuscito a vedere l’Arezzo giocare in serie A, per la verità non ci sono neanche andato vicino, però tutto sommato poteva andare anche peggio, immagina se fossi nato a Montevarchi…”. Da quel giorno sono passati un bel po’ di anni, ci sono stati pochi momenti belli, come le tre stagioni in serie B, e tante annate caratterizzate da lacrime e grandi delusioni in serie C e D. Del presente sarebbe meglio non parlarne, dico solo che conviviamo con il terribile presentimento che anche noi un giorno tireremo il calzino senza aver visto l’Arezzo nella massima serie. Ogni tanto ripenso ad Aurelio, era un tifoso vero, sanguigno e passionale, innamorato di un calcio del quale oggi si sono perse le tracce. Mencaroni era un cavallo matto, spesso incontenibile come George Best nelle sue giornate migliori, però non ricordo di averlo mai visto essere aggressivo. Le discussioni, specie quelle fuori dallo stadio, erano molto accese, spesso si protraevano fino a quando non faceva buio, ma non sconfinavano mai nel terreno della violenza. Finiva tutto sorseggiando un Caffè Sport Borghetti al Bar dello Stadio, e poi tutti a casa davanti alla tv a vedere la moviola della Domenica Sportiva, molto meno divertente di quella del Mencaroni.