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venerdì | 13-06-2025

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Referendum, una bella lezione

Ci sono quelli che credono che la Terra sia piatta, quelli convinti che la Luna sia fatta di formaggio e poi ci sono quelli che, nel 2025, pensano ancora che un referendum possa raggiungere il quorum. In un paese dove va a votare a stento il 50% dell’elettorato, dove la metà dei sindacati si smarca e dove la maggioranza che governa il Paese rema contro, pensare di portare a casa il risultato non era una corsa in salita: era come rincorrere un Frecciarossa in bicicletta.
Detto questo, comprensibile la delusione — magari un po’ stizzita — di chi credeva nella battaglia referendaria e ora se la prende con chi, legittimamente, ha scelto l’astensione. Ma altrettanto stucchevole è il tasso alcolico del trionfalismo di chi oggi brinda deridendo la sinistra, i Cinque Stelle e la CGIL, come se l’esito fosse una condanna definitiva. Occhio: i quasi 15 milioni che hanno votato sono un dato serio, specie se si considera che alle ultime politiche il centrodestra ha raccolto poco più di 12 milioni e mezzo di voti con un’affluenza del 63% destinata a calare. Nessun automatismo, certo, ma nemmeno motivi per fare caroselli.
La lezione, semmai, è politica. Serve a ricordare che non basta dichiararsi puri, coerenti, duri e senza peccato per conquistare consenso. Non funziona più. Forse non ha mai funzionato, ma oggi è persino più evidente. E questo vale soprattutto per una certa sinistra, anche locale, che continua a cullarsi nella vocazione minoritaria come se fosse un distintivo di nobiltà.
Ad Arezzo, come altrove, si affacciano scadenze elettorali importanti. E sarebbe il caso di fermarsi un attimo a riflettere. Il mondo non è quello che ci piacerebbe: è quello che è. E per trasformarlo bisogna almeno provare a capirlo. Non serve l’ennesima battaglia identitaria combattuta su un piedistallo. Serve concretezza, capacità di leggere le trasformazioni, di sporcarsi le mani nella realtà.
Il mondo del lavoro è cambiato, i rapporti di forza pure, e la cultura egemone non parla più con la lingua del Novecento. Molte cose non vanno giù agli elettori. E lo si è visto, plasticamente, nella risposta al quinto quesito referendario, quello sulla cittadinanza agli immigrati. Possiamo far finta di niente, raccontarci che è colpa della disinformazione o della paura, ma sarebbe un errore. C’è una parte del paese, anche in Toscana, anche in provincia di Arezzo, che non si riconosce nel racconto a senso unico sull’accoglienza.
Accogliere non è una forma di riparazione storica, non è un automatismo etico. È una questione economica e sociale. E se da un giorno all’altro sparissero i lavoratori stranieri, non reggerebbe un solo pezzo del nostro sistema. Detto questo, serve anche chiarezza: chi delinque va cacciato, senza tentennamenti. Non per ideologia, ma per coerenza con i valori democratici che dovrebbero guidarci. E sarebbe il caso di leggere, per esempio, il recente rapporto dei servizi segreti francesi sulla nascita di ghetti urbani regolati da norme parallele. Il rischio esiste. E ignorarlo non è un atto di coraggio: è miopia.
Il referendum, insomma, ci ha restituito una lezione che va oltre il numero di schede timbrate. È un segnale che riguarda la politica, quella vera, quella con la P maiuscola. Ed è una chiamata alla responsabilità per chi, anche nel nostro territorio, vuole provare a costruire un’alternativa seria e credibile.
I dati della provincia di Arezzo, che pure ancora non ho esaminato nel dettaglio, saranno certamente materia di riflessione per un prossimo intervento. Ma già da ora possiamo dire che chi continua a preferire la testimonianza alla costruzione politica, rischia di regalare altri cinque anni di governo agli avversari. Anche qui, anche da noi.

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