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lunedì | 16-06-2025

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“Il mio Covid”, la storia di Andrea e degli “occhi senza volto”: “Gli angeli esistono davvero”

Occhi senza volto“, è così che Andrea Pecora chiama il personale sanitario che lo ha seguito durante la malattia. “Perché di loro vedi solo gli occhi e psicologicamente è una cosa molto pesante“.

Andrea ha deciso di testimoniare ciò che ha vissuto “per far capire quanto pericoloso possa essere il Covid-19 sia per noi stessi ma soprattutto per gli altri”. Un racconto immortalato in alcune righe scritte di suo pugno e poi raccontato ad Arezzo24.

Tutto inizia da un pranzo con la figlia, in quello stesso pomeriggio a lei viene la febbre. Dura un solo giorno, senza destare particolare preoccupazione. Andrea pensa: “Ha preso la solita influenza stagionale“. Il tampone è in ogni caso passaggio obbligato.

Durante l’attesa del risultato si manifestano i primi sintomi anche per lui. Dolori, febbre.

“Passano le ore, la febbre non scende, anzi tende ad alzarsi, compare la tosse e un po’ di affanno nella respirazione”, scrive.

Prenota a sua volta un tampone ma, proprio mentre è in fila per effettuarlo, la chiamata della figlia toglie ogni dubbio: il suo risultato è positivo.

Da qui inizia il calvario di Andrea, tra incredulità e sintomi sempre più evidenti.

Sono sempre stato attento, sempre ad utilizzare igienizzanti e mascherine. Può capitare a chiunque“.

Un giorno il saturimetro indica un valore tra 96 e 94. Il medico di famiglia attiva i colleghi delle Usca, Unità Speciali di Continuità Assistenziale, per una visita di controllo.

“Mi alzo dal letto, cerco di dare una sistemata alla casa che ormai assomiglia più ad un ripostiglio. Suonano e apro la porta, sono loro.

Sono due, dottoressa e infermiera, indossano una tuta bianca con cappuccio che le copre completamente fino ai piedi, doppia mascherina, visiera e doppi guanti in lattice. Mi visitano con attenzione e una volta andate via mi telefonano: ‘Parleremo col suo medico e le faremo sapere’.

Tra me e me penso: ok, sto prendendo il cortisone solo da ieri, domani sicuramente starò meglio. Anche loro occhi senza volto, li chiamo così perché di queste persone non vedo altro”.

All’indomani della visita arriva una chiamata dal 118: un’ambulanza sta arrivando a casa di Andrea. I medici sospettano una polmonite da Covid-19, dovrà essere ricoverato.

L’arrivo all’ospedale San Donato di Arezzo viene scandito da un rapido cambio di reparti: Covid-1 e poi Covid-0. Durante la degenza la malattia non tende a migliorare, Andrea ha bisogno del casco Cpap per respirare.

“Ascolto con attenzione tutte le raccomandazioni, adesso anche io sono dentro il casco. I miei compagni dall’altra parte della camera mi fanno gesto con il pollice alzato che va tutto bene, possiamo parlarci solo così. Io rispondo con lo stesso gesto. Ma non è così, se mi hanno messo qua dentro vuol dire che non va per niente bene. Mi chiedo ma sto tanto male? Prima di uscire dalla stanza uno sconosciuto, due occhi senza volto, prende la mia mano, la stringe tra le sue e mi dice ‘Non ti preoccupare, ci siamo qui noi’. Non era uno sconosciuto ma uno degli angeli senza ali”.

Nel reparto alcune giornate sono più difficili di altre. Andrea intitola uno di questi momenti “La notte del panico“.

“È notte, sono in uno stato di dormiveglia. Il rumore del casco mi rimbomba nella testa. Sto sognando, ma è un sogno confuso, di quelli che svaniscono appena apri gli occhi. All’improvviso sento nel mio sogno che qualcuno strilla, lo sento più forte e apro gli occhi: vedo il mio compagno di stanza, quello di fronte a me, seduto sul letto che si sbraccia. La camera è in penombra, non riesco a capire se è lui che strilla o l’altro accanto che però non vedo perché nascosto dall’angolo della stanza. Mi fa cenno di chiamare aiuto ma che posso fare? Posso solo suonare il campanello.

Il nostro compagno strilla, sente un forte dolore al petto e non riesce a respirare. Io guardo attraverso i vetri delle due porte, spero che dal corridoio arrivi qualcuno. Il compagno davanti a me continua a sbracciarsi, mi fa cenno di chiamare, ma io non posso fare altro. Finalmente dietro la seconda porta compare qualcuno ma non indossa le protezioni, gli faccio cenno con le braccia di correre dentro, poi ne arriva un altro ma anche lui senza protezioni, mi guardano e io continuo a sbracciarmi. Loro, a gesti, mi dicono di stare calmo, ma come si fa a stare calmi? Quello strilla e non respira!

Non so quanto tempo sia passato, forse secondi che a me sono sembrati eterni. Si accendono le luci della camera ed entra l’infermiere che vola a dare soccorso, sento solo strilli, guardo avanti e vedo il compagno di fronte seduto sul letto, sta piangendo”.

Dopo 4 giorni di casco arriva la buona notizia: può essere tolto, i valori sono migliorati. Poco dopo però la sfortuna colpisce ancora Andrea: contrae un’infezione al sangue e i suoi valori tornano a peggiorare. Si riparte con le cure, il respiro è di nuovo affannoso.

Dopo un ciclo di antibiotici anche questa battaglia è vinta, passano due giorni e per Andrea arriva una notizia inaspettata: verrà dimesso. Si commuove e piange.

“Riferendosi agli infermieri una persona mi ha detto: ‘È il loro dovere! È il lavoro che hanno scelto’. Sì questo è vero, anche chi sceglie di fare il militare è consapevole dei rischi che corre, ma non per questo bisogna scatenare una guerra per farlo lavorare”.

Una volta accettato ciò che aveva passato ed essersi ripreso, Andrea ha deciso di rendere nota la sua storia.

Ha voluto raccontare il suo ricovero non solo per far prendere coscienza di ciò che tuttora sta accadendo, ma anche per ringraziare tutto il personale ospedaliero “che rischiando la propria vita, cura e assiste i pazienti facendoli sentire meno soli“.

Photo credits: Lorenzo Magistrato 

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