"Tutta la polvere del mondo in faccia", l'assaggio di mortalità di Paola Tellaroli vince il Premio Pieve

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Il Premio Pieve Saverio Tutino 2023 a Paola Tellaroli, con il testo "Tutta la polvere del mondo in faccia", una memoria che copre gli anni dal 2017 al 2022. Menzione speciale ai diari di Ettore Piccinini e di Maria Anna Rold. Buona lettura

Paola ha 31 anni, è una giovane donna piena di iniziative, di sogni, determinata. È assegnista in biostatistica, ha un compagno, si sente “in motorino con il vento tra i capelli, le mani alzate prima dello schianto”.

Lo schianto arriva la sera del 14 febbraio quando un grumo di sangue si deposita nel cervello di Paola. È vittima di un ictus ischemico cerebrale, ma nessuno può ancora immaginarlo. Al pronto soccorso la diagnosi corretta arriva dopo nove lunghe ore. Al risveglio scopre progressivamente i danni che ha subito il suo corpo: la paralisi della parte destra, l’impossibilità di comunicare. Ma Paola non si scoraggia e comincia un lungo cammino di riabilitazione, reso possibile anche dalla vicinanza degli affetti, del compagno e degli amici, un “branco di delfini” che le ha dato la forza necessaria. 

Questo assaggio di mortalità le fa capire di non essere invincibile, bensì vulnerabile come tutti.

Paola ci consegna un diario del presente pieno di ironia e di capacità di autoanalisi, oltre che una lucida critica verso la burocrazia del sistema sanitario. A cinque anni dall’ictus, è pronta a riprendere la strada che si era bruscamente interrotta: prepara lo zaino e parte per l’Amazzonia. 

La giuria ha deciso di assegnare una menzione speciale ad altri due diari che condividono il periodo storico (1944-45): Quando saremo di nuovo uomini, di Ettore Piccinini (1922-2007) e La via della vita di Maria Anna Rold (1926-2018).

Ettore, sottufficiale del Regio esercito, è fatto prigioniero e deportato nei campi di lavoro del Reich subito dopo l’armistizio dell’8 settembre ‘43. Piccinini narra con lucidità le condizioni di vita materiale, la fame, il freddo, le privazioni, le attese dei viveri e delle notizie sull'andamento del conflitto, ma ricorda anche la solidarietà tra i prigionieri.

Il faticoso ritorno a casa è parte di questa esperienza che accomuna centinaia di migliaia di uomini. La storia degli Internati Militari italiani nei lager della Germania nazista si arricchisce così di una nuova pagina autobiografica di grande valore.

Con Maria Anna Rold vediamo lo stesso momento storico dal punto di vista femminile, di una ragazza che, non ancora diciottenne, crede ai manifesti che promettono lavoro ben retribuito nei territori del Reich e parte in direzione di Vienna. Trova però bombardamenti e distruzione e comincia una vera odissea per tornare a casa. Si accoda alle colonne di soldati italiani, passa davanti al tremendo campo di Mauthausen, viaggia con qualunque mezzo. Dopo un’incredibile scalata a piedi delle Alpi, il lungo calvario termina il 6 maggio 1945 a Milano, dove si ricongiunge con la madre e il fratello. 

Paola Tellaroli

Firenze, 14 febbraio 2022

impugnare una penna con la mano destra e tracciare segni sinuosi coi quali imprimere sui tuoi fogli quello che mi stava accadendo. È quello che ho sempre fatto fin da piccola, no? Ma ora non è più, semplicemente, possibile. Non posso più permettermelo a causa di un nemico non più

grande di un coriandolo, ma che è stato in grado di tenermi in ostaggio per tutti questi anni.

Però oggi questi cinque anni finiscono e ultimamente la paura ha preso a svanire. Ora mi sento un po' come dopo un’apnea prolungata: necessito di aria fresca e di buttare fuori tutto questo male. Siccome so bene che per tornare a vivere mi basterebbe solo avere qualcuno a cui raccontare questa storia - così da schiacciare quest’ultima bolla di vita e di vederla esplodere godendomi lo spettacolo, come Marla Singer alla fine di Fight Club - ma siccome ho capito anche che non posso ammorbare gli amici, in quanto viviamo tutti in un mondo infame, fatto di ingiustizie, di guerre, di sofferenza, di gente che muore per un nulla... non trovo il coraggio di lamentarmi con loro, perciò penso sia giunto il momento di tornare da noi. Alla fine tu sei sempre stato l'unico modo che conosco per metabolizzare, recuperare i pezzi di me e cercare di ricomporli, per poi voltare pagina. Hai sempre funzionato, ma questa volta ti avviso che sarà tosta. A partire dal fatto che a causa di quel coriandolo ci dovremo abituare ad una modalità di incontro più asettica: niente più scarabocchi, linee tirate su parole poco convincenti e nessun disegnino. Per non parlare degli errori che commetterò, uh, che vergogna!, ma l'importante è soltanto che io mi capisca. Senza dovermi fare mille pare sui termini da scegliere o su come stracazzo si coniugano i verbi o si pronunciano le parole: finalmente sola con l'anarchia dei miei pensieri. Ma non sarà tosta solo per questo, quanto perché tu sarai la mia valvola di sfogo, il mio punchingball. Preparati, perché per non perdere il senno, io ti urlerò addosso tutta la rabbia che ho accumulato, vomiterò qui tutto il male che ho subito. Diventerai luogo adibito a lasciar tuonare tutta la frustrazione e lo sdegno repressi da una malattia invisibile, cronica e troppo precoce. Una malattia che mi ha trovata distratta, mi ha bussato alla spalla mentre ero sul trampolino della vita, proprio quando credevo che il meglio dovesse ancora venire ed ero pronta a salpare coi miei sogni... Ti ricordi quando divoravamo la vita insieme? Ecco, adesso è lei che divora me. Ho capito che il destino per me aveva altri piani quando mi sono ritrovata inchiodata al suolo, come in quegli incubi in cui le gambe ti si fanno marmoree e non riesci più a muovere nemmeno un mignolo. La mia prigione è stata la più vertiginosa che riesca ad immaginare: il mio corpo. Un corpo inutile e doloroso che non risponde ai miei comandi, ma al tempo stesso che mi contiene.

Oggi sono cinque anni esatti da quando il cuore m'è galleggiato in testa, improvviso come un singhiozzo. Cinque anni da quando la festa del futuro che avevo preparato è venuta giù tutta, da quando la mia vita - come fosse un aquilone - s'è inceppata volando via. È stata una nuvola lunga cinque anni. Sono stati anni di sogni spezzati, di famiglie di rospi che scalciando scendono giù, di lacrime mal celate, di umiliazioni involontarie, di domande che maperfavore, di brucianti invidie, di sedicenti specialisti che nemmeno nei peggiori film horror. Cinque anni che puzzano di quella paura che piega le gambe: la paura dell’abisso, quella di non poter mai più assaporare l’allegria, quella di dipendere dagli altri e di sopraffarli, la paura di aver già sbagliato tutte le mosse che avevo a disposizione in questa mezza vita e di essermi così inconsciamente auto- sabotata la parte restante. Anni di dolore perenne e di oceanica stanchezza, anni ad aggrapparmi alla speranza che le persone non si accorgessero che sono diversa, che io vengo da un altro mondo. Il mondo di chi vede il Buio e non riesce più a dimenticarlo. E questi sono solo cinque anni di una malattia che non finisce mai, che ti si appiccica addosso come una sanguisuga e ti succhia via la vita. Questo è il quinto anno che non ricordo come si salta, il quinto anno da quando la felicità mi è scivolata di mano. È la quinta perla opaca di una collana che ricordo così splendente, ma così imperfetta, che alla fine penso non stonino nemmeno loro. Le perle opache.

È a loro che brinderò ogni giorno di questa vita innestata malamente sul tronco principale, ed è a loro che vorrei dedicare questo racconto terapeutico sul momento in cui ho perso la leggerezza, mischiata a quel pizzico di incoscienza che mi hanno sempre contraddistinta. Ma brinderò soprattutto alla mia forza, che ho scoperto non essere facilmente esauribile, alle persone che ho incontrato durante questo viaggio e a chi ha saputo tirare giù quell'aquilone.

Ettore Piccinini

15 agosto 1945

Siamo partiti in camion alle 11, dopo una lunga attesa sotto la pioggia. Finalmente l'imponente colonna (centocinquanta automezzi) è partita alla volta di Innsbruck. Man mano che si procede il tempo cambia ed arriviamo ad Innsbruck che un bel sole illumina le montagne. Siamo in 42 per camion, con i bagagli, e si sta maledettamente pigiati. Poco prima di Innsbruck penetriamo nella zona controllata dai francesi. Attraversiamo cantando la città: qualcuno dalle finestre o lungo le strade, ci saluta festosamente. Puntiamo dritti verso il confine. Il paesaggio è magnifico ma osserviamo distratti. I nostri occhi cercano i cartelli indicatori nei quali è segnata in cifre sempre più piccole la distanza che ci separa dalla Patria. Finalmente arriviamo. Finalmente una sbarra si abbassa, un’altra si alza, un soldato della “Folgore” saluta, immobile, vicino al palo della bandiera. Nanni mi stringe nervosamente un braccio, io non ho più voce. Dal camion davanti al nostro parte un grido: “Viva l’Italia!”. Qualcuno risponde, dal nostro, con voce fioca. L’emozione è troppo grande ed è impossibile tradurla. Qualcuno dice due o tre volte, dietro a me: “È l’Italia, siamo in Italia” come per convincersi di qualcosa di trano. A Bolzano facciamo una brevissima sosta e proseguiamo per Trento. Le macchine corrono leggere sulla grande strada asfaltata, i passanti si fermano a salutarci agitando una mano. Adesso le montagne sono ormai dietro le nostre spalle, e il paesaggio è cambiato. Riconosciamo, con emozione indicibile, la Patria. La riconosciamo nei campi coltivati intensivamente, nei tetti delle case, che non sono più spioventi, nelle frutta che pendono da interminabili frutteti, ai lati della strada. Il primo vigneto è stato accolto con un urlo -"L'uva!" e con un altro urlo la prima bancarella che vende, angurie. "L'anguria!" gridano intorno a me, e sembrano pazzi. Uno aggiunge: "È bianca, rossa e verde," Riconosciamo la Patria nella gente che ci saluta dalle finestre, sulle porte delle case, nella strada, la riconosciamo nella spigliata eleganza delle nostre ragazze, nei gesti sobri, quasi vergognosi, degli uomini, nel viso solcato dalle lacrime di una vecchietta, che grida: "Figli, figli miei!". Poi, scende la notte e la corsa continua, faticosa ormai. Non riesco a tenere gli occhi aperti. Attraversiamo paesi e paesini illuminati. C'è la gente sulle porte dei caffè e da qualche parte si balla. I fari illuminano talvolta con prepotenza le coppiette degli innamorati, lungo la strada. Talaltra, più prosaicamente, illuminano le figure nere a bandoliera bianca di due carabinieri che, nella vecchia divisa, fanno l’ultimo giretto d’ispezione. A notte alta giungiamo a Pescantina, vicino Verona. Di lì, ognuno raggiungerà casa sua. Appena arrivati, veniamo attorniati da gente che urla: "'Venezia, Rovigo per di qua! Ferrara, Modena, da questa parte!" e via di seguito. Ogni provincia ha lassù il suo piccolo comitato. Apprendiamo, con sorpresa, che c'è pure quello di Ancona, ma non riusciamo a trovarlo, se non dopo lunghe peregrinazioni. Il comitato ha sede sotto una tenda, in un vigneto vicino, ed è composto di due giovanotti, forniti di una damigiana di vino e di una cesta di panini. Li svegliamo rudemente; e ci danno da mangiare, somministrandoci contemporaneamente le ultime notizie. Domani alle 7 parte una tradotta per Bologna. Mangiamo e beviamo allegramente, ma il vino ha 14 gradi e noi non siamo più abituati. Cosicché Nanni prende la sbronza e tutti siamo più o meno brilli. Non ci rimane che stenderci per terra e aspettare il giorno.

Maria Anna Rold

Quando Guido spiegò che cercavamo la via più breve per il Brennero scese e ce la indicò. Per far più presto bisognava salire quell'erta montagna tre quarti d'ora di camino diceva lui e poi si c'era una ferrovia, forse ci sarebbe stato anche un treno, e sennò, c'era la strada che ci volevano 3 buone ore di cammino.

Si decise per la montagna.

Eravamo fra i primi nella salita ma pian piano le forze mi mancarono e rimasimo gli ultimi, ma Guido che non voleva perdere di vista le ultime tracce della comitiva, non si stancava mai e con tutto il peso dei bagagli doveva trascinare pure me. O Dio il mio cuore, non ci resistevo più, non avevo più forza, non riuscivo nemmeno più a respirare, era sempre roccia, una specie di viottolo che non aveva la minima rassomiglianza di una strada, ma sassi, uno sopra l'altro, bisognava camminare con le mani e con i piedi senza sosta e senza tregua, e la meta non si raggiungeva mai, mai, mai, Guido era fuori di sé per la mia valigia che doveva continuare a portare e che avrebbe volentieri sprofondato nell'abisso. A volte a guardar giù mi prendeva la vertigine e se non mi sorreggeva uno o l'altro non avrei avuto nemmeno la forza di reagire. Volevo arrivare a qualcosa a qualcosa che si potesse dire sediamoci, fermiamoci un momento, non avevo nemmeno la forza di piangere di parlare di lamentarmi, cammina come una sonnambula mi lasciavo trascinare come incosciente, solo vedevo sempre dinanzi a me, sassi grossi macigni e montagne montagne sempre.

Supplicai ad un certo punto che si fermassero perché mi sentivo venir meno, ma non fecero a tempo ad udirmi che mi trovai lunga e distesa all'indietro dove fortunatamente le braccia quasi libere di Giuseppe mi presero. Guido aveva del cognac, ci volle un po' per rimettermi, mentre mi [rintegravo] riuscii a percepire debolmente la voce di qualcuno, non capii bene se Guido e Giuseppe che dicevano “Povera ragazza è più morta che viva à avuto del fegato abbastanza a pensare che non ne ho quasi viste di ragazze tra tutta questa gente, è stata fin troppo forte, mi fa compassione, se non fosse per questi maledetti bagagli la prenderei in braccio”.

Poi mi fecero coraggio mi dissero che presto saremmo arrivati e allora cercai di raccogliere tutte le mie energie e mi misi ancora in cammino, ora avevano più riguardo e andavano più a piano sorreggendomi continuamente. Non eravamo più soli, qua e la sorpassavamo piccoli gruppi di gente ferma, sdraiata o seduta perché non poteva più continuare dalla stanchezza. Mi sentivo al sicuro delle voci [che] dall'alto avevano dato, l'allarme, avevano saputo dalla voce di quelli più in alto di loro che non c'era più molta strada, forza e coraggio dunque, e la gente con questo avviso aveva diradato la marcia e chi non ne poteva più si era fermato tanto o presto o tardi un posto c'era da fermarsi e questo bastava.

Un casello in lontananza e un brulichio di gente ci fece finalmente capire che la meta era giunta, Il prato e le strade circostante la linea ferroviaria era piena di gente sdraiata che non si poteva nemmeno passare. Noi ci lasciammo cadere proprio nei sassi vicino le rotaie tanto eravamo morti di stanchezza, tre ore e quaranta minuti di marcia in montagna.

Così sdraiati nei duri e grossi sassi uno vicino all'altro, non riuscivamo nemmeno a chiudere gli occhi, la luna stava sparendo dietro la montagna, tra pochi minuti sarebbe sorta l'alba, tremavo di freddo, Guido mi strinse a lui, pensai che se anche voleva non avrebbe nemmeno avuto la forza di darmi un bacio, eppure quello era l'unico momento propizio, dopo di che sarebbe venuto giorno e alla notte prossima si faceva ormai conto di essere tutti a casa propria. Pensai che era l'unica ricompensa che gli potevo dare un bacio, dopo tanta sofferenza e tanto martirio, ma quasi senza volerlo le palpebre mi si chiusero. Percepii appena qualcosa di freddo e di umido sulle mie labbra ma quando apersi gli occhi, Guido era la immobile vicino a me con gli occhi chiusi. Non seppi se mi aveva baciato e mi dispiacque di non averlo potuto contraccambiare. Ma rimase sempre in me il ricordo di qualcosa di fresco sulle labbra [brucianti] all'alba di una grigia giornata d'aprile in un posto sconosciuto in mezzo alle montagne del Brennero, li sulla terra nuda sui sassi grossi in attesa del treno.

 

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