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mercoledì | 10-09-2025

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Arte

Da Gaeta ad Arezzo passando per Roma: il segreto filo di Lepanto

Ci sono fili della storia che non risaltano subito agli occhi, ma che legano città lontane come se fossero vicine. Uno di questi corre da Arezzo a Gaeta e si intreccia con una data precisa: 7 ottobre 1571, la battaglia di Lepanto.
Qualche giorno fa ho avuto l’occasione di visitare il magnifico Museo Diocesano di Gaeta e, finalmente, di vedere dal vivo ciò che cercavo da tempo: lo stendardo di Lepanto. Non un semplice drappo, ma un pezzo di memoria che ha attraversato secoli di storia.
Papa Pio V ne fece realizzare due: il primo, in damasco turchese con gli stemmi della Lega Santa, è oggi custodito a Toledo. Il secondo, quello che sventolava sulla nave dell’ammiraglio pontificio Marcantonio Colonna, è rimasto a Gaeta. Sulla seta campeggia un Crocifisso affiancato da san Pietro e san Paolo, con sotto la scritta: «In hoc signo vinces». L’opera, attribuita a Girolamo Siciolante da Sermoneta, artista di fiducia dei Colonna, fu probabilmente donata alla cattedrale della città laziale dallo stesso ammiraglio, che a Gaeta fece tappa sia prima sia dopo Lepanto.
Ma cosa c’entra tutto questo con Arezzo?
Ad Arezzo nacque Giorgio Vasari, e fu proprio lui a dipingere i grandi affreschi della Sala Regia in Vaticano che celebrano Lepanto. Una pittura che oggi potremmo definire “politicamente scorretta”, piena di allegorie trionfalistiche: la Fede cattolica che calpesta il nemico, un Cristo che scaglia fulmini come Giove, un san Pietro armato di spada e angeli ribelli in fuga. Scene che oggi possono far sorridere o storcere il naso, ma che all’epoca raccontavano il senso di una vittoria epocale.
Ed è proprio qui che nasce quel filo invisibile tra Arezzo e Gaeta: un vessillo conservato sul mare e un affresco dipinto a Roma da un aretino. Due testimonianze diverse ma complementari, che ci ricordano come la storia non sia mai del tutto finita: si nasconde nei musei, nelle chiese, nei palazzi, perfino nelle giostre, pronta a riaffiorare ogni volta che decidiamo di guardarla con occhi curiosi. Sarà forse un caso che i famigli del Buratto della Giostra del Saracino vestono in abiti turcheschi e lo stesso Buratto è il “Re delle Indie” ha fattezze tra il turco e l’africano?
Perché in fondo, volenti o nolenti, la storia fa parte di noi. Ed è un po’ come quel motto inciso sullo stendardo: “In hoc signo vinces”. Non sarà un talismano, ma un invito a non dimenticare chi siamo e da dove veniamo.