Beppe Fenoglio, 100 anni di storia e antiretorica

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Cento anni dalla nascita di Beppe Fenoglio (Alba, primo marzo 1922). Un secolo è un tempo sufficiente per celebrare uno scrittore considerato da molti come il più efficace narratore della guerra partigiana.

Ma a ricordare il Fenoglio autore di grandi libri, ci penseranno altri, ben più capaci di me. Io voglio parlare di un altro aspetto, quello che lo portò a subire critiche severe.
Partiamo dal principio. Fenoglio fu partigiano nelle Langhe, militava nelle “formazioni azzurre”, composte in gran parte da ex militari, fedeli al Re e per questo definite “badogliani”. Portavano un fazzoletto azzurro al collo, il colore dei Savoia, invece di quello rosso dei “garibaldini”. Rappresentavo l’altra dimensione della resistenza.
La guerra partigiana, per tanti anni, è stato appannaggio della parte “comunista” ma sappiamo bene che non fu così: nel crogiuolo della resistenza ci furono gli autonomi, come appunto Fenoglio, Giustizia e Libertà, le Fiamme Verdi, le Brigate Matteotti e quelle cattoliche.
E proprio perché fu un fenomeno complesso non si può leggere in maniera lineare. Come scrive Fenoglio, “I partigiani erano per lo più bravi ragazzi e che come tali avevano dei brutti difetti.”
Per taluni la sua colpa è di essere andato oltre la retorica resistenziale, descrivendo la lotta partigiana per quello che fu: una feroce guerra civile, dove gli uomini non erano perfetti come eroi cavallereschi ma si portavano dietro opportunismi e meschinità, amore e crudeltà.
Significativa quella frase che fa da incipit al racconto i “Ventitré giorni della città di Alba”.
«Alba la presero in duemila il 10 ottobre e la persero in duecento il 2 novembre dell’anno 1944», implicita denuncia dello scarto fra il gran numero di partigiani scesi in città a raccogliere il frutto di una facile vittoria, poiché la guarnigione fascista si era ritirata senza combattere, e quello esiguo di quanti restarono a difenderla quando invece i nemici tornarono in forze a riconquistarla.
Fenoglio non concede nulla alla magniloquenza, difficilmente nelle sue pagine troverete qualcosa che si avvicina all’eroismo, alla descrizione della guerra partigiana come contrapposizione tra il bene assoluto e il male assoluto. La sua è piuttosto, come è stato detto, una “Odissea della guerriglia”, una Odissea che si consuma tra il fango e la nebbia delle Langhe. Ed è il motivo per cui la sua opera venne demolita, definita «rappresentazione qualunquista», «tendenziosa, falsa, meschina»; «gretta acredine filistea»; «un brutto capitolo nella letteratura della Resistenza». Questi i giudizi che all’epoca si potevano leggere su una certa stampa di partito.
Invece a me piace proprio per questo. Perché mostra come la storia è fatta di piccole cose e di uomini sconosciuti e non ha bisogno di essere caricata di significati che non possiede.
Oggi, davanti a una guerra che torna a insanguinare l’Europa, provo un fastidio profondo per la bolsa retorica dei giornali e delle TV.
Davanti alle immagini dei profughi, delle distruzioni, dei morti non c’è bisogno dei racconti di erosimi distorti, di narrazioni che sfiorano il ridicolo. La guerra e la violenza fanno schifo di per sé. Beppe Fenoglio ce lo fa capire con le sue immagini letterarie che narrano di freddo e fame, di rastrellamenti e fughe precipitose. Regalando pagine di quotidiana incertezza, quell’incertezza che sembra oggi segnare la vita di tutti noi.
Per chi volesse qualche notizia in più sui 100 anni di Fenoglio www.beppefenoglio22.it

Foto da Wikipedia

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Paolo Brandi

Paolo Brandi

Laureato in filosofia a Pisa e in storia a Siena. Amante dei cani, dell'Inter e della Sicilia. Fin da piccolo impegnato in politica ma col tempo ha assunto un atteggiamento più contemplativo.