“Franchi Narratori”, il Premio Pieve Saverio Tutino tra letteratura e scrittura popolare

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La giornata di sabato 15 settembre vede protagoniste le scritture popolari e i “Franchi narratori” – questo il tema scelto per la 34^ edizione del Premio Pieve Saverio Tutino – ovvero gli oltre 8.000 autori di diari, memorie e lettere affidati all’Archivio, giacimento sterminato di documenti storici e patrimonio di letteratura popolare. 

La tavola rotonda. Il Premio Pieve ha scelto di dedicare la 34^ edizione al confronto tra letteratura e scrittura popolare. Sabato 15 settembre alle 18 l’incontro tra quattro firme prestigiose della letteratura contemporanea -  Marco Balzano, Paolo Di Paolo, Marcello Fois, Sandra Petrignani -  e cinque studiosi e scrittori da sempre vicini alla realtà dell’Archivio -  Pietro Clemente, Paola Gallo, Anna Iuso, Melania G. Mazzucco e Stefano Pivato - sui temi dell’autobiografismo. Tutti insieme cercheranno di rispondere a questi grandi quesiti: “Cos’è l’autorialità e perché marca il confine tra le scritture dell’Archivio dei diari e quelle degli scrittori di professione? Come avviene che una scrittura d’autore trasmigri dal campo del privato al pubblico, e quindi alla pubblicazione? Attraverso quali vie l’autobiografismo si fa letteratura? Dove si colloca, nel panorama culturale italiano, la scrittura non colta o semicolta? Abbiamo bisogno, oggi, di "franchi narratori” ?

Diari che diventano libri. La giornata di sabato 15 settembre si è aperta alle ore 10 con un incontro sul tema “Rappresentanza e rappresentazioni. Uno sguardo di genere” a cura di Patrizia Gabrielli, con Giulia Cioci e letture di Donatella Allegro. A seguire la presentazione di due anteprime editoriali: alle 11.30 il volume Ridotta Isabelle (Terre di mezzo, 2018) nato dall’epistolario di Antonio Cocco vincitore del Premio Pieve 2017, l’incontro coordinato da Laura Ferro vede la partecipazione di Giovanni Cocco, Gianluigi Cortese e Umberto Gentiloni Silveri con letture di Andrea Biagiotti; alle 16 una preziosa appendice dedicata al tema dell’emigrazione, in questo caso otto-novecentesca, con la presentazione in anteprima del volume Abasso di un firmamento sconosciuto (il Mulino, 2018) curato da Amoreno Martellini. L’incontro coordinato da Laura Ferro vedrà la partecipazione di Antonio Gibelli, del regista Emanuele Crialese e di Matteo Caccia per la lettura della “rapsodia dell’emigrante”. Alle 18 la tavola rotonda dedicata ai “Franchi Narratori” e alle 21.45 la messa in scena di KOHLHAAS, lo spettacolo teatrale di e con Marco Baliani ad ingresso gratuito su prenotazione.

KOHLHAAS di Marco Baliani. “La storia di Kohlhaas - come scrive Baliani - è un fatto di cronaca realmente accaduto nella Germania del 1500, scritto da Heinrich von Kleist in pagine memorabili. Nel mio racconto orale è come se avessi aggiunto allo scheletro osseo riconoscibile della struttura del racconto di Kleist, nervi muscoli e pelle che provengono non più dall’autore originario ma dalla mia esperienza, teatrale e narrativa, dal mio mondo di visioni e di poetica. Così ad esempio tutta la metafora sul cerchio del cuore paragonato al cerchio del recinto dei cavalli, che torna più volte nella narrazione, come luogo simbolico di un senso della giustizia umanissimo e concreto, è una mia invenzione, nel senso etimologico del termine, qualcosa che ho trovato a forza di cercare una mia adesione al racconto di Kleist. Così via via il testo originale si è come andato perdendo e ne nasceva un altro, un work in progress alla prova di spettatori sempre diversi, anno dopo anno, in spazi teatrali e non, secondo un procedimento di crescita che ai miei occhi appare come qualcosa di organico, come mi si formasse tra le mani un organismo vivente sempre più ricco e differenziato. Kohlhaas è la storia di un sopruso che, non risolto attraverso le vie del diritto, genera una spirale di violenze sempre più incontrollabili, ma sempre in nome di un ideale di giustizia naturale e terrena, fino a che il conflitto generatore dell’intera vicenda, cos’è la giustizia e fino a che punto in nome della giustizia si può diventare giustizieri, non si risolve tragicamente lasciando intorno alla figura del protagonista una ambigua aura di possibile eroe del suo tempo. Le domande morali che la vicenda solleva e lascia sospese, mi sembrarono, quando cominciai ad affrontare l’impresa memorabile del racconto, un modo per parlare degli anni ’70, per parlare di quei conflitti in cui venne a trovarsi la mia generazione, quella del ’68, quando in nome di un superiore ideale di giustizia sociale si arrivò a insanguinare piazze e città. Un tema antico dunque, tragico nella tradizione e nella forma, che continua a catturarmi, perché il narratore non può che narrare ciò che epicamente lo coinvolge nell’intera sua persona, a me succede così: non potrei raccontare qualsiasi cosa”.

Franchi Narratori – 34 °Premio Pieve Saverio Tutino 2018

Letteratura e scrittura popolare. Letterati e illetterati. Scrittori colti e incolti. O semicolti. Scrittura pubblica e privata. O intima. Scrittura alta e scrittura bassa.

Scrittura di sé. Per sé. Per gli altri. Scrittura per sé e per gli altri. Scrittura autobiografica. Romanzo autobiografico. Romanzo. Diario. Memoria. Lettera. Poesia.

Il Premio Pieve non è un concorso letterario.

È l’unico riservato a scritture autobiografiche inedite. Contropremio.

Però. Il vincitore sarà pubblicato presso un editore nazionale. Diari che diventano libri.

Che lo scritto non sia stato confezionato per partecipare al concorso. Pericolo cose “aggeggiate”. La commissione di lettura. La giuria nazionale. L’esperienza. Le indagini. In prima persona, sì. In terza persona, no. La vivezza. L’autenticità. La genuinità. “Se da esso fosse emerso qualche scampolo di letteratura, questo si doveva considerare come un esito fortunato, ma non voluto dalla nostra iniziativa”. Però. “Si è messa in moto l’idea che anche da certi documenti personali, estranei alle logiche di mercato, si può ricavare un filone nuovo di letteratura”.

Incipit

Andrea Camilleri — Il re di Girgenti, 2001 Sicilia

Ora comu ora, i Zosimo se la passavano bona. Ma sidici anni avanti, quannu erano di frisco maritati, Gisuè e Filònia la fame nìvura avevano patito, quella che ti fa agliuttiri macari il fumo di la lampa. Erano figli e niputi di giornatanti e

giornatanti essi stessi, braccianti agricoli stascionali che caminavano campagne campagne a la cerca di travaglio a sicondo del tempo dei raccolti e quanno lo trovavano, il travaglio, potevano aviri la fortuna di mangiare per qualiche simanata, pre sempio una scanata di pane con la calatina, il companaticu ca poteva essere un pezzo di cacio, una sarduzza salata, una caponatina di milanciani. La notte, se si era di stati, dormivano a sireno, a celu stiddrato; se si era di ‘nvernu, s’arriparavano in quattro o cinco dintra a un paglia-ro e si quadiavano a vicenda con il sciato.

Vincenzo Rabito — Autobiografia, 1969-75 Sicilia

Questa; e; la bella; vita; che; ho; fatto; il sotto; scritto; rabito vincenzo; nato; a chiaramonte; qulfe; dallora; provincia; di; siraqusa; figlio; di; fu; salvato-re; e; di; qurriere; salvatrice; chilassa, 31.marzo;1899.e; per; sventura domiciliato; nella; via; tommaso; chiavola? la; sua; vita; fu: molto; maletratata, e molto;

travagliata; e molto; desprezata; il padre: mori! a; 40. anne; e; mia; madre; resto; vedova; a; 38. anne; e; resto; vedova; con; 7. figlie; 4.maschele; e; 3. femmine; e; senza; penzare; piu; alla: bella; vita? che; avesse; fatto; una; donna; con il marito? solo; penzava; che: aveva; li, 7. figlie; da; campare; e; per; darece; ammanciare; il piu, crante; di; queste; figlie; si; chiamava; ciovanni; ma; ciovanni; di; questa, nomirosa; fami-glia; non ni; voleva sentire; per, niente; se; antava; al lavorare; quelle: poche solde; che; quadagnava; non bastavino; neanche; per, lui? e quinte; quella; povera; di; mia madre: era; completamente; abilita; con tante; figlie? mio madre; con quelle; tempe; miserabile; per potere; campare; 7. figle; con il tanto; la voro; nimori? con una pormenita? per non antare; arrobare; e; per; volere; caminare; onestamente; ma; il padreterno? quelle; che; voglino; vivere; o; nestamente; in vece, diautarle; li famorire? cosi; il se conto; di; questa; nomerosa; famiglia, era; io; vincenzo.

http://archiviodiari.org/index.php/la-manifestazione/i-vincitori/434-notizie-e-schede-vincenzo-rabito.html

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Ignoto

Joseph Conrad —  Cuore di tenebra, 1899 Fiume Congo

Risalire quel fiume era come compiere un viaggio indietro nel tempo, ai primordi del mondo, quando la vegetazione spadroneggiava sulla terra e i grandi alberi erano sovrani. Un corso d’acqua vuoto, un silenzio assoluto, una foresta impenetrabile; l’aria calda, spessa, greve, immota. Non c’era gioia nello splendore del sole. Deserte le lunghe distese d’acqua si perdevano nell’oscurità di adombrate distanze. Sui banchi di sabbia argentati ippopotami e coccodrilli si crogiolavano al sole, fianco a fianco. Stavo osservando l’asta dello scandaglio quando vidi il mio scandagliatore abbandonare di colpo l’attrezzo e buttarsi pancia a terra sul ponte senza neppure prendere la briga di recuperare la pertica. Al contempo il fuochista che stava sotto di me si rannicchiò d’un tratto davanti alla caldaia abbassando la testa. Ero stupefatto. Ma in un lampo dovetti tornare con gli occhi sul fiume per-ché davanti a noi c’era un tronco d’albero. Tutto intorno volavano dei bastoncini, dei piccoli bastoncini — fitti: mi sibilavano davanti al naso e mi cadevano alle spalle urtando contro la cabina. Nel frattempo il fiume, la riva e i boschi erano rimasti in silenzio — un silenzio assoluto. Udivo sol-tanto un tonfo sordo delle pale sull’acqua e il picchiettio di quei bastoncini. Frecce, per Giove! Ci stavano tirando addosso. Una raffica di fucilate esplose sotto i miei piedi. I pellegrini avevano aperto il fuoco con i Winchester riuscendo solo a schizzar piombo nella boscaglia. Si alzò un maledetto nebbione di fumo che cominciò a spostarsi lento, in avanti. Imprecai. Me ne stavo sulla soglia a scrutare, mentre le frecce arrivavano a sciami. 

Giulio Cesare Scatolari — Diario, 1899 

Fiume Congo 

Stamattina abbiamo veduto un numero straordinario d’ippopotami. Si è tirata qualche fucilata inutile a causa della distanza. Alle 15 circa abbiamo dovuto arrestarci per l’appressarsi di un grosso uragano che dopo poco è scoppiato con grande violenza. Nel pomeriggio abbiamo visto branchi di 50 e più ippopotami, un numero enorme di sparvieri di cui ne furono uccisi parecchi e uno stormo di pipistrelli grossi quanto una bella gallina. Siamo rimasti senza pane e per questa sera si faceva conto di arrivare alla prossima stazione per potersi vettovagliare ma per mancanza di legna abbiamo dovuto arrestarci presso un banco di sabbia, inviando la baleniera per prendere legna pel domani mattina. Ci ànno consigliato di non andare al villaggio perché vi è poca sicurezza trattandosi di una tribù battagliera e facilmente traditrice. Scendo ciò non ostante a terra col mio fucile e m’in-terno cacciando procurando così qualche cosa da aggiungere all’assolutamente deficiente vitto di bordo. Ad un certo punto sento un forte sibilo, di una freccia che mi passa rasente la testa, mentre un’altra mi perfora il calzone destro senza ledermi. Tiro tre o quattro colpi a mitraglia nella direzione donde son partite le freccie  ma per così dire alla cieca impedendomi le alte erbe di vedere qualche cosa. Stimo oportuno di tornarmene guardingo a bordo

Emancipazione

Sibilla Aleramo — Una donna, 1906

Interni domestici

Non sono tornata laggiù. Non ho più riveduto mio figlio. I primi giorni mi furono quasi un riposo, sotto la vigilanza silenziosa e trepida di mia sorella: poi, le settimane si susseguirono in uno scambio sempre più violento di lettere tra me e mio marito, tra lui e mio padre, infine tra i nostri avvocati. In colui si palesava crescente la sorpresa per la mia resistenza; s’illudeva che avrei finito per tornare: non aveva egli per ostaggio il figlio? E il bimbo, per mezzo della domestica, mi mandava dei bigliettini ove le sue dita incerte scrivevano parole d’amore e d’angoscia: “...

Vorrei scappare, mamma, ma come fare? Qui mi dicono delle brutte cose di te... Io ti voglio tanto bene, non ti dimenticherò ne-anche fra cent’anni... Ma tu che fai? Non puoi mandare a prendermi?”.

Che cosa mi tratteneva, con forza implacabile? Una voce dentro di me, quasi non mia, non del mio povero organismo sensibile, mi diceva che il passo da me fatto era irrevocabile, e che io non potevo più mentire a me stessa; ch’io sarei morta di onta e di disgusto se non sapevo resistere allo strazio, se non preferivo morire! Sempre più forte mi s’insinuava la persuasione che non avrei ottenuto mai nulla da colui, che la sua vendetta sarebbe stata inesorabile: dopo le minacce egli mi mandava ora parole beffarde: sapeva ch’io non potevo iniziare causa di separazione per mancanza di motivi legali. Infine anche l’avvocato rinunziò ad ogni trattativa. Io restavo proprietà di quell’uomo, dovevo stimarmi fortunata ch’egli non mi facesse ricondurre colla for-za. Questa era la legge. La domestica, laggiù, venne cacciata, e così anche i biglietti-ni di mio figlio cessarono. Nessuno poteva far nulla per me. Perché la morte tardava tanto? O io ero morta di già e non sopravviveva di me che un ricordo?

Emilia — Epistolario, 1872-1881 Interni domestici

Carissimo amico

Non posso tralasciare di comunicarti una ben triste notizia per me e pe’ miei figli. Il giorno 24 corrente venne firmata davanti al Presidente del Tribunale la mia separa-zione! Pel momento non posso dilungarmi in dettagli; solo ti dirò che in questi ultimi tempi, soffersi inauditi dispiaceri, tanto che mi forzarono ad abbandonare la casa maritale.

Il giorno 23 io partiva di quella casa col cuore straziato e lacerato, di dover la-sciare tre figli, framezzo al pianto de’ miei fidi domestici, che mi adoravano, presentandomi nello stesso giorno dal Procuratore del Re e dal Presidente del Tribunale, i quali, già al fatto di tutto, per mezzo dell’Avvocato Barral, accolsero ed appoggiarono la mia domanda di separazione, che il giorno dopo io firmavo decisamente davanti all’adirato marito, che mi avrebbe uccisa con lo sguardo, potendo. Ora è tutto finito! Due figli li tengo io, e tre il Padre coll’obbligo a questo di mandarmeli una volta alla settimana dalla mattina alla sera affinché io li veda, e li possa ab-bracciare e non essere dimenticata, dai soli esseri che mi devono amare sempre; e che spero non mi vorranno pagare d’in-gratitudine, io, che li ho tanto amati, fino a perderne la salute per non volerli abbandonare... Ma ora questo richiede somma tranquillità e cure prontissime, quindi era di assoluta necessità abbandonare quel tetto inospitale sotto il quale soffersi inauditi dispiaceri.

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Montagna

Paolo Cognetti — Le otto montagne, 2016 Arco alpino

Era sera e risalendo la valle riuscivo a vedere soltanto lo spazio illuminato dai fanali. Poi qualcosa attirò la mia attenzione e mi chinai verso il parabrezza per guardare in su. Nel cielo notturno delle forme bianche mandavano una specie di chiaro-re. Impiegai un momento a capire che non erano nuvole: erano le montagne ancora coperte da neve. Avrei dovuto aspettar-melo in aprile. Ma in città la primavera era inoltrata e io non ero più abituato a sape-re che andando in alto si va indietro nelle stagioni. La neve lassù mi consolò delle miserie del fondovalle.

Non ricordavo bene perché mi fossi allontanato dalla montagna, né cos’altro avessi amato quando non avevo amato più lei, ma mi sembrava, risalendola ogni mattina in solitudine, di farci lentamente pace. Quel che dovevo proteggere, in me, era la capacità di stare solo. C’era voluto del tempo per abituarmi alla solitudine, farne un luogo dove in cui potevo accomodarmi e stare bene; eppure sentivo che tra noi il rapporto era sempre difficile. Così me ne andavo verso casa come riprendendo confidenza con lei. Niente si muoveva a quell’ora tranne i miei passi e il torrente, che continuava a scrosciare e gorgogliare mentre il bosco dormiva. Nel silenzio la sua voce era chiara e potevo distinguere i toni di ogni ansa, rapida, cascata, attutiti dal folto della vegetazione e via via più nitidi sulla pietraia. In alto anche il torrente taceva. Mi sembrava di riuscire a cogliere la vita della montagna quando l’uomo non c’era. Io non la disturbavo, ero un ospite ben accetto; allora sapevo di nuovo che in sua compagnia non mi sarei sentito solo.

Ettore Castiglioni — Diario, 1939

Arco alpino

Fuggire: un bisogno di evasione sentivo da quei luoghi, da quei ricordi; un bisogno di riposo e di distensione. Mi sentivo proprio stanco di fisico, di nervi e di spirito. Partii subito da Tregnano verso i monti, verso la Marmolada. Non per cercar l’ascensione, a cui mi sentivo spiritualmente inetto, ma per cercar l’incanto della solitudine

della pace e dei fiori. Mi sentii solo, molto solo, tra quelle montagne che non aveva-no più per me quella parola che io attendevo da loro. Perché? Perché io non le so più comprendere? O non le so più amare? Fuggire, evadere; mai come in quel momento, guardando la sagoma cupa e muta della Busazza, sentii il bisogno di andarmene lontano, lontano da ogni profanazione, a cercare la vita, la verità e la felicità, dove la natura è ancora selvaggia e pura, dove l’uomo non sia ancora giunto con la sua menzogna. Fuggire verso la solitudine immensa. Chi mi potrà più trattenere, ora che sono libero? Libero, e solo. Il cammino della ricostruzione sarà lento, faticoso e difficile; avrei bisogno di tutta la mia forza, per distaccarmi violentemente da tutto ciò che è stato e che or-mai non è più nulla per me, per ricostruire dal nulla, dalla sabbia del deserto, dalla solitudine, la mia nuova vita, tutta mia. Ho bisogno di essere solo, di raccogliermi in me stesso, di difendermi selvaggiamente da tutto e da tutti, di odiare tutto e tutti, fino al momento in cui avrò ritrovato me stesso, e avrò ricostruito la mia vita. Allora potrò stendere di nuovo la mano a chi mi ama, e a chi io amo. Ora ho bisogno di evadere al più presto, il più lontano possibile.

Periferia

Pier Paolo Pasolini — Ragazzi di vita, 1955 Borgate di Roma

Il Riccetto se ne tornava, bianco in faccia come un cencio, piano piano, aspettando che piazzassero le bancarelle del mercatino e venisse gente a far la spesa. Aveva una fame, povero figlio, che stava per sturbarsi. Mise gli occhi su una fetta di gruviera, dalla pasta un po’ ingiallita, e cosi odorosa che toglieva il fiato. Ci s’accostò, facendo moina, e aspettando che il padrone fosse assorbito dalla discussione con una cliente, grassa come un vescovo, che stava da un bel pezzetto lì a esaminare con aria velenosa il for-maggio, e con una mossa fulminea zac si beccò il pezzo di gruviera e se lo schiaffò in saccoccia. Il padrone lo sgamò. Pianto il coltello in una forma, fece: “Un minuto, a signò”, uscì fuori dal banco, acchiappò pel colletto della camicia il Riccetto che se la squagliava facendo il tonto, e con aria paragula, sentendosi in pieno diritto di farlo, gli ammollo due sganassoni che lo voltò dall’altra parte. Il Riccetto furioso, come si riebbe dall’intontimento, senza pensar tanto gli si buttò sotto a te-sta bassa, tirando alla disperata dei ganci ai fianchi: l’altro sbarellò un momento, ma poi, siccome era grosso due volte il Riccetto, comincio a menarlo in modo tale che se degli altri bancarellari non fossero corsi lì a separarli, l’avrebbe mandato di-retto al Policlinico. Ma però, da fusto e da dritto come si sentiva, poté permettersi di calmarsi subito. Disse a quelli che lo reggevano: “Lassateme, lassateme, a moretti, che nun je fo’ niente. Che me metto co li regazzini, io?”

Claudio Foschini — Autobiografia, 1990-91 Borgate di Roma

Un giorno (avevo 5 o 6 anni) con gli altri amici decidemmo che ormai dovevamo prendere i soldi, così mettemmo in por-to una nostra idea si trattava di questo, mentre entravamo nei negozi pieni di gente, gridavamo inni della Roma e nella confusione uno di noi (a rotativa ogni negozio che giravamo) si accucciava dietro il bancone e piano piano senza farci vedere all’ungavamo la mano al cassetto e prendevamo i soldi mentre tutti gli altri continuavano a cantare gli inni della roma così doppo aver agguantato il possibile (senza essere visti dal padrone) e poi scappavamo dal negozio fra lo stupore della gente che non si rendeva conto di ciò che stava succedendo, ma con la mia famosa sfortuna un giorno che toccava a me l’agguanto, dovevamo farlo in una macelleria, cominciamo con la solita solfa gli inni io mi accuccio dietro il banco e allungo la mano arrivo al cassetto e mentre stò agguantando i soldi sento tutt’untratto il cassetto chiudersi con la mia mano dentro e il padrone grande e grosso che mi si avventa addosso, il figlio alto come me grasso e con una faccia da maiale al chè mi metto a gridare di portarmi dalle guardie, men-tre i miei amici scappavano lui con faccia bonacciona mi rispose cosa ti porto a fare dalle guardie visto che dopo ti mandano a casa (avevo all’incirca 5 anni) mi portò nella cella frigorifera e mentre suo figlio rideva e mi faceva i sberleffi dall’altra parte della cella frigorifera, lui mi riempiva di botte. smesso di picchiarmi mi buttò fuori dal negozio sul marciapiede tutto nero e gonfio.

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Mare - Ernest Hemingway — Il vecchio e il mare, 1952 Acque di Cuba

Il vecchio aveva visto molti pesci grossi. Ne aveva visti molti che pesavano più di quattro quintali e mezzo e ne aveva già presi due di quelle dimensioni in vita sua, ma non era mai stato solo. Ora, da solo e in pieno mare aperto, era legato al pesce più grosso che avesse mai visto e di cui avesse perfino sentito parlare, e aveva la mano sinistra ancora serrata come la morsa degli artigli di un’aquila. “Non sono religioso” disse “ma dirò dieci Pater Noster e dieci Ave Marie per prendere questo pesce, e se lo prendo, prometto di fare un pellegrinaggio alla Vergine de Cobre. È una promessa”. Cominciò a recitare meccanicamente le preghiere. L’Ave

Maria è più facile da dire del Pater Noster, pensò. “Ave Maria piena di grazia, il Signore e con te…”. Poi aggiunse: “Vergine benedetta, prega per la morte di questo pesce. Per meraviglioso che sia”. Dette le preghiere si sentì molto meglio, anche se soffriva esattamente come prima e forse un po’ di più e si appoggiò al legno della prua e incominciò meccanicamente a muovere le dita della mano sinistra. Ora il sole era caldo nonostante la brezza si stesse alzando leggera. “È meglio che rimetta l’esca alla lenza piccola a poppa” disse. “Se il pesce decide di resistere un’altra nottata, avrò di nuovo bisogno di mangiare e l’acqua nella bottiglia è quasi finita. Credo che non riuscirò a prendere che un delfino, in questo punto. Ma se lo mangio abbastanza fresco non sarà cattivo. Come vorrei che stanotte mi venisse a bordo un pesce volante. Ma non ho luci per attirarlo. Un pesce volante è buonissimo da mangiar crudo, e non avrei bisogno di tagliarlo. Ora devo risparmiare tutte le forze. Cristo, non sapevo che fosse così grosso”.

Antonio Dessì — Memoria, 1985

Acque di Livorno 

Vivendo solo con la Maddalena V, lei si comportava con me come una vecchia mamma, io la curavo e lei mi sosteneva nell’acqua e mi cullava, e lasciava la mia mente libera di pensare e meditare. Inoltre mi impediva di pensare cose cattive e ingiuste: e come poteva la barca fare questo? Quando prendevo qualche temporale, che la barca tardava ad obbedire ai miei comandi, allora alzavo gli occhi al cielo e dicevo la mia Preghiera del Marinaio che è brevissima: Signore, guarda quanto è grande il mare, e pensa quanto è piccola la mia barca! Per invocare aiuto dal divino Maestro mentre che la barca non ce la fa più, bisogna essere candidi nelle proprie idee la meditazione serve anche a questo, a mettere al posto giusto i propri senti-menti. E con questo ordine di idee andavo in mare apparentemente solo, o forse lo ero davvero? Io non ci ho mai creduto. E andavo in mare sempre tranquillo, ma molto cauto e responsabile di quello che facevo. Una mattina largai fuori, c’era poco vento di levante, qualche piccola nuvola, e lo giudicai tempo buono: arrivai al posto di calare e fi-lai il segnale in mare; quando avevo calato circa un quarto delle reti, sentii una raffica di scirocco non molto forte ma rabbiosa, e dissi: “Ehi calmati”, ma non fu cosi perché mi rispose una raffica più forte. Calcolai alla svelta cosa potevo fare: tagliare le reti e andarmene? Troppo comodo andarmene senza tentare di salvare il lavoro, allora decisi di lottare. Staccai l’elica e lasciai che la barca camminasse solo col vento e cosi e reti scorrevano in mare da sole; quando fui a mezze reti ero molto stanco. Allora cominciai a dire col pensiero “forza Maddalena”, e “dove vai Maddalena” e “cosa fai Maddalena”, e anche “brava Maddalena”; non è che mi sentissi meno stanco, ma ero molto più forte e poi non ero più solo, anzi sono convinto che qualcuno mi aiutava.

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